Il caso di suor Virginia si evidenzia clamorosamente per la rinomanza dell’interessata, per gli eventi torbidi e luttuosi che ne caratterizzano l’evoluzione, per gli esiti imprevisti dell’ultima parte della sua vita. Marianna, questo il suo nome di battesimo, nacque alla fine del 1575 o nei primi mesi dell’anno successivo da donna Virginia Marino, sposata in seconde nozze a Martino de Leyva. La precocissima morte della madre e la sistematica disattenzione del padre, impegnato in continue campagne militari, la condannano a un’infanzia infelice, segnata da profonda solitudine affettiva, mentre attorno a lei i membri familiari si contendono i frutti di una cospicua eredità.
Dal 1589, con il nuovo matrimonio del padre, Marianna viene definitivamente indirizzata alla vita monacale, in ossequio alla linea dinastica e patrimoniale perseguita dal de Leyva. Le prime tappe del suo percorso religioso procedono regolarmente: nel 1591 vive l’anno del noviziato, dal 1596, assunto il nome della madre, suor Virginia Maria è monaca del monastero di Santa Margherita in Monza.
L’incontro con il giovane aristocratico Giovanni Paolo Osio segna un’autentica svolta nella vita di suor Virginia. Il rapporto, iniziato in modo conflittuale, si trasforma grazie alla complicità di consorelle sue coetanee e la coinvolge in modo sempre più intimo e torbido, pur attraverso crisi e ripensamenti.
Dopo alcuni aborti e la nascita di una figlia, che l’Osio ottiene di legittimare nel 1606, la vicenda si avvicina al suo punto di crisi. L’assassinio di una giovane conversa, decisa a denunciare la tresca, che vede coinvolti lo stesso Osio, suor Virginia e il gruppo delle suore conniventi, fa precipitare la situazione. Suor Virginia è tradotta a Milano sotto sorveglianza, nel monastero benedettino di Sant’Ulderico; l’Osio, colpevole di altri omicidi, fa fuggire dal convento di Monza suor Benedetta e suor Ottavia, le principali complici di suor Virginia; quindi cerca in momenti diversi di sopprimerle e le abbandona gravemente ferite lungo la via di fuga. Saranno tra le principali testimoni del processo istituito dalla Curia milanese. L’Osio stesso finirà tradito e ucciso da un amico presso cui si era rifugiato e le sue proprietà monzesi verranno confiscate e distrutte.
Nel 1608 si avvia la complessa celebrazione del processo, i cui atti sono stati editi in integrale edizione critica solo pochi anni fa. L’esito è tra l’altro il decreto di condanna per suor Virginia, murata viva nel ricovero delle convertite di Santa Valeria in Milano sino al 1622. La complessa e interessante trama processuale e il testo delle diverse deposizioni, trascendendo lo specifico caso, rappresentano una singolare fonte storica: esse mettono in luce un vero microcosmo secentesco, tra denunce di malefici e pronunce di esorcismi, esaltazione di pratiche ascetiche, esempi di tentazioni lussuriose e di corruzione nel clero (come dimostra il caso del sacerdote Paolo Arrigone, fiduciario del rapporto tra i due amanti).
Profondamente trasformata, autentica ombra della bellezza e dell’alterigia del passato, suor Virginia è minata nel fisico dagli anni di prigionia, ma trasformata nel proprio animo. Ne scaturisce, alla metà degli anni Venti del XVII secolo, un singolare scambio epistolare con il cardinale Federigo Borromeo. Lentamente suor Virginia de Leyva scompare nell’ombra, dimenticata dalla famiglia e dalla fama del secolo. Un’arida annotazione amministrativa datata all’anno 1650 la registra come “passata a miglior vità”.